Mi capita di rileggere a bassa voce le cose che magari ho appena finito di scrivere. Penso che lo farò anche tra poco, sottovoce. E’ solo un bisbiglio che cerca di farsi musica, ma così imparo anche ad ascoltare me stesso. Se inciampo in una parola, o in una nota, vuol dire che qualcosa non va. Non è sempre tutto quanto così ovvio in me, neanche per me stesso, che a dire il vero inciampo spesso. Magari è un po’ così per tutti, si inciampa; ma se questo è il modo più giusto per imparare a camminare, inciampare vuol dire anche che qualcosa continua a non funzionare come dovrebbe.
Ci sono soluzioni, modi di adattarsi che non funzionano allo stesso modo per tutti. Come quando da bambino avevi il singhiozzo, allora trattenevi il fiato e contavi fino a 10, esageravi, arrivavi fino a 16, e il singhiozzo non passava. Bevevi sette piccoli sorsi d’acqua, qualcuno provava anche a farti “Buuhh!”, all’improvviso e tu… niente, ancora col tuo maledetto singhiozzo a sobbalzare. E un po’ ti sentivi quasi in colpa con gli altri, perché quei metodi vecchi come il mondo con te non funzionavano; colpa tua. Perché eri tu a non esserti spaventato, tu che non sapevi neanche trattenere il respiro qualche altro secondo in più, tu che non sapevi neanche sorseggiare un po’ d’acqua come si deve o che magari avevi contato male e quei piccoli sorsi in realtà erano stati soltanto sei, oppure otto. E se non è esatta, si sa, una formula magica non funziona. Non ha mai funzionato, che sappia io, ed io sono sempre stato poco preciso nelle cose, superficiale quanto approssimativo. Sono sempre stato per il “più o meno può andare”.
Allo stesso modo oggi come ieri sussulto e continuo ad inciampare in un singhiozzo, in contrazioni involontarie dell’anima, e perdo il controllo delle cose a cui tengo di più. Proprio quelle che invece non dovrebbero finire mai, perché mi fa bene che restino sempre come sono.
Così stavolta non ho parole per le cose ed i luoghi che ho dovuto lasciare. Che se ci penso le vedo come dall’alto, da un volo che mi porta via con le cinture già strette ed allacciate: le vie del centro con le mie abitudini, i miei riferimenti, i miei spazi conosciuti, lì, e lì… eccola… la indico con gli occhi e ne parlo a me stesso. La piazza sul mare, bella da togliere il respiro… e quel parco dove qualche volta mi sono fermato a buttar giù la bozza di un post o ad ascoltar canzoni, mangiando solo un panino al volo. Però buonissimo.
E mi passano immagini davanti alla mente, scatti rubati alla gente del posto, quella che conosco, quella di un solo ciao e quella che è sempre stata più di “gente”, quella che mi ha lasciato un segno, quella che è stato bello vederla vivermi intorno e sapere che c’era. E poi i negozi, le strade, persino certi cieli del mattino. E la mia prima panchina sul mondo, come l’ho chiamata io tanti anni fa, dove il cielo si confonde col mare e non vedi nient’altro che azzurro. Quella panchina che mi ha dato una svolta, una direzione in cui guardare le cose.
Dovremmo sempre approfittare del tempo che abbiamo, approfittare di ogni giorno invece di realizzare soltanto dopo che quando si va via da un luogo caro, tante erano le cose che si potevano fare e magari le abbiamo sempre rimandate; perché “tanto ho davanti tutto il tempo che voglio”. E sono bugie, momenti che non tornano, angoli dove passando un po’ per caso con lo sguardo ti sei ripromesso che saresti tornato e non l’hai fatto mai.
E tra l’oggi e il domani, ho avuto un solo ieri per fare i bagagli e tanti giorni per carezzarne i ricordi.
Poche sono le volte in cui mi sono svegliato presto, o sono partito prima da casa solo per passare vicino a quella piazza sul mare e vedere quel sole intento a dipingere di rosso il cielo e il mare.
Quante immagini, quanti ricordi sono qui nel mio blog e appartengono a quei luoghi. E insomma, dicevo, la voglia di fermarmi la sera, all’uscita dal lavoro, e di aspettare che facesse buio per vedere tutto con altri occhi… E invece no, invece ripartivo e mi dicevo: lo farò un altro giorno. E tornavo a casa. Perché in fondo che fretta c’era di farlo? E adesso invece mi chiedo: che fretta c’era di tornare a casa?
E poi ci sei tu, amica da sempre. Amica nell’immaginario sin dai tempi di scuola. Che le nostre scuole sono state lontane e diverse, ma non importa, sento che la sensazione è quella giusta. Ti guardo ed è così. Saprei dirti persino in quale banco eri seduta, e indicarti dove sei in una vecchia fotografia di classe già sbiadita. Che strano, vero?
Ecco perché so che non è colpa mia, e non è colpa tua, ma che posso farci se adesso certe mattine mi mancherai da star male? Facciamo ancora due passi sotto casa tua? Lo prendiamo un caffè?
Ginseng piccolo per due… Perché qualche volta dal mio fare silenzioso riesco anche a dire cose che uniscono, ma più spesso no. E con te qualche volta ci riuscivo. Non stupirti ora se ti dico che la più bella foto che ho della città, adesso sei tu. Perché tutto il resto è immobile, fermo come il giorno in cui l’ho lasciato.

”Ecco, per me è un po’ così, come dici tu. Col barista che ti fa sorridere o che ascolti distrattamente mentre ti giri il caffè anche se magari in quel momento non sta parlando con te: e impari, conosci, diventi parte anche tu di quel posto. Diventi la carta su cui si scrivono le cose…”
“Con le parole già chiuse in una scatola, in una borsa piena di bagagli da portare via, di oggetti personali e di cose solo apparentemente inutili, di case e di marciapiedi che vorresti poter tratteggiare con un pennarello, ritagliare seguendone il contorno e portare via di nascosto… e lasciare soltanto un buco in quello sfondo di cielo e di città…”